Uno sguardo sulla ferita dell'Esclusione
Esistono esclusioni di varia natura, ma tutte accumunate da una cosa: la sensazione di essere diversi.
Ed è così che si sente chi vive la ferita dell’Esclusione: è a contatto giorno dopo giorno con un senso di diversità di qualche tipo.
Se vivi o hai vissuto questo tipo di ferita, conoscerai molto bene come ci si sente quando si è a contatto con gli altri, peggio ancora se con gruppi più o meno grandi.
Vivi in una sorta di “bolla”, dove ti senti lontana/o anni luce dagli altri, sei diversa/o, temi tantissimo lo scambio perché parti già dal presupposto che non sei ok e non hai nulla di interessante da dare agli altri.
Ti senti perennemente sotto esame, come se il gruppo fosse un giudice inflessibile pronto a sottolineare tutto ciò che di te non va bene. Percepisci che gli altri sono uniti, amici tra di loro, che vivono il piacere di stare insieme: e poi ci sei tu, l’intruso/o, l’elemento di troppo, il “peso” …
A volte le esclusioni arrivano già dal contesto familiare: mi riferisco a quelle famiglie che tendono molto a chiudersi nel loro nucleo, senza aprirsi all’esterno e che, più o meno involontariamente, passano il messaggio che “il fuori è pericoloso”.
Per fare un esempio da stereotipo, puoi pensare a quelle famiglie del sud emigrate nel nord Italia negli anni ‘50/60: non sempre era facile integrarsi con il nuovo contesto e, spesso, si finiva per chiudersi in casa non facendo amicizia con nessuno o rifiutandosi di entrare in certe realtà.
Questo vissuto familiare porta, per ovvi motivi, a trasferire una sorta di difficoltà anche ai figli: se non dai loro l’esempio, magari facendo amicizia con i genitori dei compagni di scuola e simili, loro apprenderanno che questo non è importante e anzi, nei casi peggiori, impareranno che esiste una qualche forma di minaccia nel legarsi a persone che non fanno parte del proprio clan.
Altra cosa sono le esclusioni legate al mondo dei pari, forse le più diffuse: molti bambini si ritrovano a vivere ferite di questo genere, o perché fanno fatica ad integrarsi nel gruppo classe e restano ai margini, o perché sono vittime di bullismo e subiscono tutta una serie di attacchi in tal senso.
In quest’ultimo caso, spesso l’esclusione diventa non solo un’azione attiva nei confronti della vittima designata attuata dal bullo di turno e dalla sua cerchia, ma può diventare anche un’azione “protettiva” delle vittime per tentare disperatamente di rendersi invisibili (spesso con scarsi risultati), per sfuggire alle varie aggressioni tipiche di questo fenomeno.
Soprattutto ai giorni nostri, il tema del bullismo (ormai diventato in buona parte cyberbullismo) è molto delicato e complesso: per il momento decido di non approfondire il fenomeno in sé, ma scelgo di fare uno zoom sulla ferita ad esso collegata e che può, ahimè, in certi casi portare proprio a divenire vittime di bullismo.
Andiamo alle origini
Da cosa può essere causata questa ferita?
Per sintetizzare il tutto in poche parole, potremmo dire che alla base dell’esclusione ci sia una convinzione di diversità: <<mi escludo o mi escludono perché ho qualcosa di diverso, perché non sono come gli altri, perché non vado bene>>.
Immagina che dalla parola “diversità” si diramino due strade ipotetiche: una diversità appresa come esempio dalle tue figure di riferimento, e un senso di diversità conseguente ad un rifiuto di qualche tipo.
Se percorriamo la prima strada possibile, approdiamo in uno scenario dove quando eravamo molto piccoli abbiamo imparato che eravamo diversi dagli altri. Magari arrivavamo da un paese diverso e/o da una cultura diversa, oppure avevamo una famiglia “particolare”.
Per particolare intendo una situazione familiare diversa perché, magari, nostro padre ha avuto una difficoltà psichiatrica importante o una malattia invalidante che ci ha portato a vivere la vita in maniera molto diversa rispetto agli altri bambini.
Oppure, succede che a un certo punto i nostri genitori decidono di separarsi e iniziamo a sentirci diversi perché, per forza di cose, la nostra vita non è come quella di un bambino che ha entrambi i genitori a casa; oppure, perdiamo uno dei due genitori e ci fanno credere che da ora in poi le cose per noi saranno diverse.
Altra forma di diversità “appresa” è quella che scava profondamente nella nostra identità, che la determina in maniera molto forte: se, per fare un esempio, hai sin dalla nascita una difficoltà fisica di qualche tipo o una malattia con cui devi convivere è molto frequente che i tuoi genitori ti facciano crescere, più o meno consapevolmente, con una sorta di “marchio di diversità”.
Sicuramente con un intento protettivo, inizi ad essere messo in una campana di vetro dove tutto è estremizzato e, tranne rari casi dove ci sono davvero delle limitazioni oggettive, chi ti sta attorno tende a farti crescere con l’idea che non puoi fare certe cose, non puoi mangiare certi cibi, non puoi correre, non puoi prendere freddo e via dicendo.
Altro aspetto di esclusione appresa può essere la passività: magari non hai un’indole molto attiva ed esplorativa, sei stato il tipico bravo bambino che “dove lo metti sta” e nessuno ti ha insegnato ad avere delle preferenze, ad esercitare la creatività, a dire la tua senza conformarti per forza a delle aspettative.
Questo ti porta da grande a sentirti quasi senza spessore, senza argomenti, senza parole: capisci bene che, nel corso del tempo, tenderai a sentirti sempre più diversa/o dagli altri e, di conseguenza, ti isolerai o farai molta fatica ad integrarti nel tuo contesto.
Questi sono esempi di “esclusione appresa” che potremmo definire frutto del contesto, delle cose che ci accadono, di eventi più o meno avversi che chi ci sta intorno ci insegna a leggere come motivo di diversità e “particolarità”: questo, ci porterà piano piano ad integrare che per noi è diverso, che non siamo come le altre famiglie, che non è lo stesso.
L’altra strada che si dirama dalla parola diversità ci porta, invece, ad un’altra ferita molto antica e profonda che abbiamo già avuto modo di avvicinare, cioè quella del rifiuto.
Potremmo dire che rifiuto ed esclusione sono in qualche modo collegate: se sono stata/o rifiutata/o in vari modi, probabilmente avrò costruito un’immagine di me manchevole, sbagliata, non adeguata. E se ho questa immagine di me, automaticamente mi sentirò diversa/o dagli altri, che sono puntualmente meglio di me e “uniformi” tra loro.
Il rifiuto può essere agito dai pari (prese in giro di vario tipo, esclusione dal gioco, gesti più eclatanti di aggressività), ma più spesso è agito in primis dalle nostre figure di riferimento e, di conseguenza, questo ci porta poi a ritrovarci all’esterno in situazioni simili a quelle che abbiamo vissuto in famiglia.
<<Ma guarda come sei maldestro, non sei proprio adatto per le cose manuali!>>, <<Muoviti, devo sempre correre perché tu non sei in grado di fare nulla!>>, <<Che capra, non riuscirai mai a laurearti!>>, <<Hai il sederotto, chissà chi potrà mai volerti!>>, <<Ma ce la fai? Sei proprio deficiente!>>, <<Mamma che brutto carattere, nessuno ti vorrà vicino!>>, <<Diciamo che tu sei quella intelligente!>>, <<Eh certo che fai fatica a fare amicizia, non sei in grado di mettere due parole insieme!>>.
Devo continuare? Penso che ciò che volevo dirti sia passato ampiamente con questi esempi … come puoi ben concludere, a volte ci sentiamo diversi perché qualcuno da fuori ci manda il messaggio che non siamo capaci o non siamo adeguati e, quindi, siamo portati a nasconderci e a non buttarci perché non abbiamo fiducia in noi stessi e crediamo che saremo rifiutati dagli altri.
Ecco che, quindi, tenderò a rendermi invisibile agli occhi degli altri, o mi porrò involontariamente in un modo che porta gli altri ad escludermi. Non vado oltre sul tema del rifiuto perché ne abbiamo già parlato il mese scorso, e se hai voglia puoi andare a leggere il post che è già stato pubblicato.
Ma come fai a capire se hai questa ferita?
Segni e segnali
Le nostre ferite lasciano dei segni evidenti, nel corpo nella psiche e nelle relazioni.
Una fetta importante del mondo della psicologia sostiene che il corpo sia il teatro d’azione della maggior parte delle nostre ferite e dei nostri traumi. Questa è in sostanza la posizione della psicosomatica, della bioenergetica e di tutti quegli approcci che mettono anche il corpo al centro dell’osservazione e dell’intervento sulla Persona.
Posizioni molto attuali, che ci insegnano a guardare il corpo e i suoi segni, come anche tutti i “malesseri” fisici, con un’attenzione particolare alle loro origini psichiche.
Come abbiamo già visto nei post precedenti, in un libro ormai datato Lise Bourbeau fa una sorta di identikit fisico di chi vive varie ferite emotive, andando a descrivere proprio i tratti fisici e le malattie più frequenti di cui potrebbe soffrire chi ha queste ferite.
Prendi tutto questo con le pinze, ovviamente. Ognuno di noi è unico e ha la sua storia, che non può ridursi ad una forma del corpo o ad una lista di sintomi ma, senza dubbio, ci sono degli aspetti caratteristici che ci possono aiutare a leggerci anche dal punto di vista fisico.
Come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, esiste una connessione tra la ferita del rifiuto e quella dell’esclusione: riferendoci allo scritto della Bourbeau, possiamo usare i tratti fisici caratteristici di chi ha la ferita del Rifiuto anche per chi vive una ferita da Esclusione.
Come ti ricorderai dal post precedente, secondo questa autrice la caratteristica principale del corpo di queste Persone è la “piccolezza”: sono corpi che sembrano quasi infantili, poco sviluppati, molto magri. E’ come se il corpo di queste Persone volesse ingombrare poco, essere quasi invisibile e senza tridimensionalità.
Le malattie tipiche di chi ha questa ferita sarebbero le intolleranze o i problemi di pelle, delle difficoltà a carico dell’apparato gastrico con nausea vomito o diarrea frequenti, cancro, problemi cardiaci o a carico dell’apparato respiratorio.
Non è infrequente riscontrare anche difficoltà con il cibo e il cibarsi in genere, infatti chi ha questo tipo di ferita tende ad essere molto magro anche perché mangia poco e, in certi casi, potrebbe manifestare tratti anoressici e/o depressivi.
Se andiamo a vedere i segni psichici più evidenti di questo tipo di ferita, ritroviamo in primis una grande angoscia nei contesti sociali: sono le tipiche Persone che sono molto a disagio alle feste o nelle cerimonie in genere, che tendono a stare in disparte facendo da tappezzeria.
Altro aspetto rilevante è quello della solitudine che in questo caso è altamente ricercata, in quanto percepita come protettiva: prediligono, cioè, attività solitarie, tendono a non far parte di alcun gruppo sociale e non riescono ad inserirsi in alcun tipo di ambiente. Nello stesso tempo, però, la condizione di solitudine fa molto male.
L’ansia e il disagio sociale percepito sono alimentati da una visione estremamente “difettosa” di se stessi: “io non valgo nulla, non sono attraente o simpatica/o, gli altri sono meglio di me”. In collegamento con questo punto, chi vive questa ferita diventa spesso un giudice inflessibile con se stesso, e inizia a paragonarsi agli altri in ogni aspetto della vita e a “pesare” in maniera eccessiva ciò che è e che ha, ovviamente sottolineando quello che manca.
E qui veniamo ai segnali relazionali tipici di chi ha questa ferita: isolamento, nervosismo o imbarazzo quando si è in gruppo, difficoltà a sostenere una conversazione con conseguente silenzio prolungato, evitamento di situazioni che esporrebbero di più al giudizio degli altri.
A volte, un po’ in controtendenza, possiamo trovare invece delle Persone che, pur avendo questa ferita, tendono a “mascherarsi” tentando di nascondere magari un certo tipo di origini, o potenziando in maniera esagerata degli aspetti che reputano “appetibili” per il gruppo (per esempio se ne ho la possibilità mi vesto marcata/o dalla testa ai piedi con l’illusione di fare colpo, o maschero fisicamente delle differenze etniche, o spingo molto sulla cultura e l’erudizione).
Come possiamo immaginare, sarà molto complesso per queste Persone avere relazioni intime e legarsi a qualcuno, proprio perché il distacco e la chiusura in se stessi portano a fare avverare questa sorta di “profezia di diversità e difettosità”.
Prendersi cura della ferita dell’Esclusione
Come puoi bene immaginare non ci sono miracoli o ricette precostituite per curare le tue ferite. Quello che si può fare è imparare a conoscerle, a prescindere dal tipo di ferita che ti caratterizza.
Conoscere una ferita significa iniziare a leggere ciò che sei, i tuoi pensieri emozioni e comportamenti alla luce di quella ferita e attraverso quella ferita.
Immagina di avere davanti un grande puzzle e di dover piano piano trovare i pezzi per comporre l’opera: avvicinare la propria ferita assomiglia un po’ a questo processo di ricerca e avvicinamento rispetto ad un qualcosa sul quale non hai mai riflettuto e che è sempre venuto fuori in automatico.
Conoscere la propria ferita ci permette, poi, di andarla ad inserire in un quadro più ampio, quello della nostra storia personale e delle nostre origini.
Non siamo monadi staccate dall’ambiente e dalle relazioni, ma siamo anche e soprattutto il frutto delle nostre relazioni e del contesto in cui viviamo: ordinare i pezzi del puzzle significa, perciò, tentare di rintracciare dei collegamenti tra presente e passato, creare dei “ponti” che ci permettano di leggere il nostro presente alla luce del nostro passato.
Questo è un passaggio fondamentale che si fa in psicoterapia: ci permette di usare ciò che ci fa male oggi come “gancio” per ritornare all’origine delle nostre ferite e, qui, risanarle man mano.
Dopo la conoscenza, quindi, il passaggio successivo è quello dell’ascolto e dell’accoglienza: non basta conoscere la nostra storia e le nostre ferite per lenirle, bisogna davvero accoglierle dentro di noi dando loro voce.
Dare voce ad una ferita significa far parlare quella parte di te che sta male, che magari non ha avuto modo di farlo in passato e che adesso ha la possibilità di essere compresa e accolta. Dare voce alla ferita significa anche “passarle attraverso”, vivendo finalmente tutto il dolore che questa si porta dietro, per poi superarlo: come dico spesso, medicare una ferita brucia ma, una volta superato il momento, quella medicazione diventa l’unica possibilità di guarigione che abbiamo.
Per quanto riguarda, nello specifico, la ferita dell’Esclusione posso dirti che il lavoro della psicoterapia diventa il punto di partenza fondamentale per avvicinarla e occupartene. Ma, se non vuoi o non puoi intraprendere un percorso al momento, ti invito a riflettere su alcuni punti che ti metto qui in modo molto schematico.
- Rintraccia nel tuo passato delle situazioni simili a quella di malessere o difficoltà che vivi adesso. Se, per esempio, rimani estremamente angosciata/o quando devi fare una cena aziendale o se sei invitata/o ad un compleanno, fai un salto indietro e recupera la prima sensazione vagamente simile a quella che stai vivendo adesso.
- Fai parlare la tua ferita. Nel momento in cui hai trovato quella situazione passata che ti ha suscitato degli stati d’animo simili a quelli del presente, fai parlare la parte di te del passato provando a farle dire come si è sentita, cosa stava succedendo e, soprattutto, di cosa aveva bisogno.
- Dai voce ai tuoi bisogni più profondi. Una volta che ti sei connessa/o con la parte ferita dentro di te permettile e permettiti di dire cosa la farebbe sentire meglio, cosa potrebbe aiutarla a non sentire quel disagio.
- Prova ad identificare ciò che ti fa sentire diversa/o o inferiore. Una volta individuati questi aspetti prova nella maniera più oggettiva possibile a definire se sono realistici o meno e, nel caso in cui dovessero esserci delle reali condizioni che ti rendono diversa/o, valuta cosa è in tuo potere fare per modificare ciò che può essere modificato.
- Prova il gioco del “facciamo finta che”. In continuazione del punto precedente, prova ad approcciarti alle situazioni sociali temute facendo finta di non avere questa ferita. Rispondi alla domanda: <<Come sarei e come mi comporterei se non mi sentissi esclusa/o?>>. Dopo, fai una sorta di “classifica” degli stimoli minacciosi, iniziando a metterti in gioco partendo dalle situazioni che ti creano meno difficoltà e affrontandole recitando la parte di una Persona che non vive questa ferita.
- Passa dal passivo all’attivo. Spesso ti senti esclusa/o e ti autoescludi perché ti reputi inferiore o manchevole su qualche aspetto: inizia, quindi, a trovare delle attività che ti fanno stare bene, che catturano il tuo interesse, e inizia a dedicare un po’ di tempo ad esse. Attraverso questo, magari, potresti iniziare a ritrovare dentro di te delle qualità nascoste o delle risorse che non vedevi, a sentire che anche tu hai qualcosa da dire e da dare agli altri.
Mi rendo conto che il discorso sia molto complesso e articolato, e ho provato a condensarlo in poche pagine pur rendendomi conto di aver messo sul fuoco forse anche troppa carne.
Ti lascio due testi utili se vuoi approfondire il discorso:
“Le 5 ferite e come guarirle”, di Lise Bourbeau.
“Reinventa la tua vita”, di J. E. Young e J.S. Klosko.
Un caldo benvenuto a chi è approdato per caso su questa pagina e a chi ci è arrivato di proposito, insieme ad un grosso arrivederci a chi vorrà tornare a trovarmi.