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"Non sono degno di esistere!"

Uno sguardo sulla ferita del Rifiuto


Non sono degno di esistere: questo il messaggio sottosoglia che viene scolpito nel cuore di chi vive la ferita del Rifiuto.

Il rifiuto può essere più o meno manifesto e attivo, nel senso che potrebbe presentarsi come ce lo immaginiamo se guardiamo al senso letterale della parola: veniamo allontanati, qualcuno fuori da noi ci fa sentire che non ha piacere a stare con noi, che non ci vuole o che non ci reputa degni della sua attenzione.

Altra forma di rifiuto un po’ più “velata” è quella della deprivazione emotiva: in tal caso non ci sono azioni dirette atte a farci sentire che non siamo i benvoluti, ma ci sono delle omissioni. E mi riferisco a tutte quelle situazioni di deprivazione dove manca una sintonizzazione empatica, dove veniamo lasciati soli a livello emotivo, dove non c’è supporto e incoraggiamento, dove prevale una freddezza affettiva ed emotiva che ci rende sempre più glaciali a nostra volta.

È un senso di mancanza che fa molta paura, che ti fa provare un’angoscia e una solitudine indescrivibili. Proprio perché senti di non avere importanza, di doverti rendere quasi invisibile per non dare fastidio, che non hai il diritto di avere un posto nel mondo e, soprattutto, che a nessuno frega nulla di ciò.

Tutto questo ti farà sentire probabilmente inadeguata/o e priva/o di valore e spesso, in conseguenza di ciò, tenderai a comportarti verso te stessa/o esattamente come fa chi ti sta vicino: non ti dai la giusta importanza e il giusto valore, non ti ascolti, non ti legittimi di provare delle emozioni, ti isoli da tutto e tutti, ti metti una maschera di freddezza e insensibilità.   

Questa è una delle ferite più antiche che si possano avere, perché la maggior parte delle volte viene sperimentata in tenera età, quando il nostro apparato psichico non è del tutto formato e attrezzato per fronteggiare determinati traumi. In tal caso, i segni di questa ferita saranno più evidenti e incideranno sul tuo modo di stare nelle relazioni successive e sul tuo assetto emotivo.

 

Andiamo alle origini

 

Da cosa può essere causata questa ferita?

In primo luogo ritorno velocemente a riferirmi al mondo dell’attaccamento, perché questa ferita è la maggior parte delle volte frutto di un attaccamento di tipo evitante.

Come abbiamo già visto, la ricerca scientifica ci ha dimostrato che siamo predisposti biologicamente a reagire in un certo modo se veniamo separati dalla nostra figura di attaccamento. Questo perché un cucciolo non potrebbe sopravvivere senza la mamma e, quindi, è biologicamente programmato per ricercare la sua vicinanza, costi quel che costi.

Bowlby fu uno studioso importantissimo del legame di attaccamento mamma – bambino, e le sue ripetute osservazioni dei distacchi e dei ricongiungimenti in questa diade gli hanno permesso di trarre delle conclusioni importanti su come funzioniamo.

Di base, a livello innato, siamo predisposti a provare in primis angoscia di fronte alla separazione: protestiamo, abbiamo paura, ricerchiamo in modo frenetico la nostra figura di riferimento. Poi, arriva la disperazione, l’abbattimento totale e la resa quando capiamo che quella Persona non tornerà da noi: questo “gettare la spugna”, però, ci permette pian piano di guardarci intorno e cercare di instaurare nuove relazioni di attaccamento.

Ecco che, allora, il cucciolo abbandonato prova a riorganizzarsi e, se la sua mamma torna, è molto probabile che avrà una reazione di distacco, di rabbia, perché si è sentito abbandonato. Nella maggior parte dei casi, però, la situazione rientra e il piccolo rinnova la sua relazione di attaccamento con la mamma.

Ci sono situazioni, però, nelle quali il distacco non è vissuto in maniera così armonica e flessibile: hai presente quei bambini piccoli che non versano nemmeno una lacrima se vengono allontanati dalla mamma per entrare all’asilo? Di solito sono quelli definiti “bravi”, che non fanno una piega di fronte alla separazione, che vanno via come se nulla fosse senza nemmeno manifestare un minimo segno di disagio.

La ricerca definisce questo tipo di reazioni come tipiche di un attaccamento di tipo evitante: detto molto semplicemente, a furia di percepire freddezza e distacco dalla tua figura di riferimento, non protesti nemmeno più in sua assenza perché sai che non verresti accolto o coccolato.

Ecco che, allora, potenzi l’autosufficienza e inizi ad esplorare l’ambiente come se nulla fosse, diventando a tua volta glaciale: pensa a quei bambini che continuano a giocare senza problemi quando la mamma ritorna, dando l’idea che non cambi assolutamente nulla se lei è presente o no.

Altro aspetto è l’indisponibilità emotiva di un genitore non necessariamente legata all’attaccamento: pensa a un genitore con problemi di dipendenza o di depressione grave, o che sta affrontando varie situazioni di stress che lo portano a non essere disponibile per suo figlio, o a delle situazioni di trauma subito magari in età precoce che non predispongono la Persona a sviluppare un’intelligenza di tipo emotivo.  

In tutte queste situazioni, molto probabilmente, il piccolo sperimenterà forse la cosa peggiore di tutte: la sensazione di non essere amato.

Un bambino ha bisogno di presenza emotiva, di calore, approvazione e supporto soprattutto nell’infanzia: la presenza di un genitore che gli trasferisce il messaggio <<sei importante perché esisti, e mi interessa molto di te e del tuo benessere>> è fondamentale per un armonico sviluppo della personalità.

Purtroppo, però, non sempre le cose vanno in questo modo e, più spesso di quanto non si pensi, molti bambini si ritrovano a vivere in situazioni di aperta conflittualità dove si verificano abusi emotivi molto gravi, ma anche in situazioni apparentemente idilliache dove, di fatto, sono essenzialmente soli da un punto di vista emotivo.

Non dobbiamo andare molto lontano se guardiamo, per esempio, a quei casi di bambini che hanno tutto, che vivono anche in contesti privilegiati ma che non hanno la cosa fondamentale: la presenza emotiva e il calore dei genitori, magari molto impegnati sul lavoro o semplicemente a loro volta cresciuti con il mito dell’autonomia sempre e comunque.

Cosa succede allora? Il bambino inizia ad imparare in primis che se nemmeno le Persone a lui più vicine come mamma e papà lo guardano e lo ascoltano nessuno potrà mai farlo e sarà destinato a cavarsela sempre da solo ma, ancora, imparerà a trattare se stesso allo stesso modo.

 

Segni e segnali

 

Le nostre ferite lasciano dei segni evidenti, nel corpo nella psiche e nelle relazioni.

Una fetta importante del mondo della psicologia sostiene che il corpo sia il teatro d’azione della maggior parte delle nostre ferite e dei nostri traumi. Questa è in sostanza la posizione della psicosomatica, della bioenergetica e di tutti quegli approcci che mettono anche il corpo al centro dell’osservazione e dell’intervento sulla Persona.

Posizioni molto attuali, che ci insegnano a guardare il corpo e i suoi segni, come anche tutti i “malesseri” fisici, con un’attenzione particolare alle loro origini psichiche.

In un libro ormai datato Lise Bourbeau fa una sorta di identikit fisico di chi vive la ferita del Rifiuto, andando a descrivere proprio i tratti fisici e le malattie più frequenti di cui potrebbe soffrire chi ha questa ferita.

Prendi tutto questo con le pinze, ovviamente. Ognuno di noi è unico e ha la sua storia, che non può ridursi ad una forma del corpo o ad una lista di sintomi ma, senza dubbio, ci sono degli aspetti caratteristici che ci possono aiutare a leggerci anche dal punto di vista fisico.

Secondo questa autrice, la caratteristica principale del corpo di queste Persone è la “piccolezza”: sono corpi che sembrano quasi infantili, poco sviluppati, molto magri. E’ come se il corpo di queste Persone volesse ingombrare poco, essere quasi invisibile e senza tridimensionalità.

Anche il corpo si nega, in un certo senso, il diritto di esistere e di prendersi un suo spazio: spalle ricurve, parti del corpo smilze e ossute, caviglie molto sottili, braccia incollate al corpo quasi a passare inosservate, impressione che manchi qualcosa nello sviluppo delle parti del corpo stesse. E, infine, uno sguardo vago, quasi vitreo, poco vitale, come se gli occhi sfuggissero un reale contatto con l’esterno.

Le malattie tipiche di chi ha questa ferita sarebbero le intolleranze o i problemi di pelle, delle difficoltà a carico dell’apparato gastrico con nausea vomito o diarrea frequenti (nel non dover esistere, il corpo tende ad espellere le sostanze da dentro di lui …), cancro, problemi cardiaci o a carico dell’apparato respiratorio.

Non è infrequente riscontrare anche difficoltà con il cibo e il cibarsi in genere, infatti chi ha questo tipo di ferita tende ad essere molto magro anche perché mangia poco e, in certi casi, potrebbe manifestare tratti anoressici e/o depressivi.

Se andiamo a vedere i segni psichici più evidenti di questo tipo di ferita, ritroviamo in primis un grande senso di solitudine e isolamento: il quadro che ne deriva è di Persone o estremamente chiuse e solitarie, che spesso appaiono quasi scontrose e antipatiche. Oppure possiamo avere un quadro di Persone anche aperte e socievoli, ma che mantengono i loro rapporti ad un livello molto superficiale.

E, proprio a causa dei loro vissuti passati, tendono a far fatica ad entrare in empatia con gli altri, sono in qualche modo “anaffettivi”, mostrano loro stessi incapacità di ascolto e sintonizzazione, freddezza e tendenza all’autonomia estrema.

Potrebbe succedere che compensino questa immaturità emotiva con la performance o con il potenziamento delle funzioni intellettive: proprio perché hanno imparato a farcela da soli, non è infrequente che diventino Persone in carriera, molto concentrate sulla performance, sul raggiungimento di un certo livello di perfezione per forza maggiore irrealistico (infatti spesso a questa ferita si lega quella del perfezionismo, che vedremo in futuro).

Anche qui, però, la dimensione di base che accomuna questi vissuti è una visione “manchevole” di se stessi: “se l’altro mi rifiuta è perché io non valgo nulla, non ho il diritto di esistere, non sono importante, non sono amabile”. 

E qui veniamo ai segnali relazionali tipici di chi ha questa ferita: l’altro può fare molta paura e, per questo, viene evitato o in maniera attiva e manifesta (quindi totale assenza di relazioni) o sabotandolo, non riuscendo mai a legarsi a qualcuno in maniera intima, cambiando partner spesso o instaurando solo relazioni superficiali a base sessuale.

Infine, sono Persone che fanno fatica a chiedere, e ancora di più a ricevere: proprio perché c’è un forte vissuto di non legittimità, ricevere degli apprezzamenti o dei complimenti sarebbe un’esperienza troppo anomala per loro, ma anche il chiedere diventa impossibile proprio perché hanno imparato a dare meno disturbo possibile e ad occupare uno spazio minimo nella vita.

 

Prendersi cura della ferita del Rifiuto

 

Come puoi bene immaginare non ci sono miracoli o ricette precostituite per curare le tue ferite. Quello che si può fare è imparare a conoscerle, a prescindere dal tipo di ferita che ti caratterizza.

Conoscere una ferita significa iniziare a leggere ciò che sei, i tuoi pensieri emozioni e comportamenti alla luce di quella ferita e attraverso quella ferita.

Immagina di avere davanti un grande puzzle e di dover piano piano trovare i pezzi per comporre l’opera: avvicinare la propria ferita assomiglia un po’ a questo processo di ricerca e avvicinamento rispetto ad un qualcosa sul quale non hai mai riflettuto e che è sempre venuto fuori in automatico.

Conoscere la propria ferita ci permette, poi, di andarla ad inserire in un quadro più ampio, quello della nostra storia personale e delle nostre origini. Non siamo monadi staccate dall’ambiente e dalle relazioni, ma siamo anche e soprattutto il frutto delle nostre relazioni e del contesto in cui viviamo: ordinare i pezzi del puzzle significa, perciò, tentare di rintracciare dei collegamenti tra presente e passato, creare dei “ponti” che ci permettano di leggere il nostro presente alla luce del nostro passato.

Questo è un passaggio fondamentale che si fa in psicoterapia: ci permette di usare ciò che ci fa male oggi come “gancio” per ritornare all’origine delle nostre ferite e, qui, risanarle man mano.

Dopo la conoscenza, quindi, il passaggio successivo è quello dell’ascolto e dell’accoglienza: non basta conoscere la nostra storia e le nostre ferite per lenirle, bisogna davvero accoglierle dentro di noi dando loro voce.

Dare voce ad una ferita significa far parlare quella parte di te che sta male, che magari non ha avuto modo di farlo in passato e che adesso ha la possibilità di essere compresa e accolta. Dare voce alla ferita significa anche “passarle attraverso”, vivendo finalmente tutto il dolore che questa si porta dietro, per poi superarlo: come dico spesso, medicare una ferita brucia ma, una volta superato il momento, quella medicazione diventa l’unica possibilità di guarigione che abbiamo.

 

Per quanto riguarda, nello specifico, la ferita del Rifiuto posso dirti che il lavoro della psicoterapia diventa il punto di partenza fondamentale per avvicinarla e occupartene. Ma, se non vuoi o non puoi intraprendere un percorso al momento, ti invito a riflettere su alcuni punti che ti metto qui in modo molto schematico.

  • Rintraccia nel tuo passato delle situazioni simili a quella di malessere o difficoltà che vivi adesso. Se, per esempio, ti senti spesso incompresa/o, sola/o, non degna/o di amore, fai un salto indietro e recupera la prima sensazione vagamente simile a quella che stai vivendo adesso.
  • Fai parlare la tua ferita. Nel momento in cui hai trovato quella situazione passata che ti ha suscitato degli stati d’animo simili a quelli del presente, fai parlare la parte di te del passato provando a farle dire come si è sentita, cosa stava succedendo e, soprattutto, di cosa aveva bisogno.
  • Dai voce ai tuoi bisogni più profondi. Una volta che ti sei connessa/o con la parte ferita dentro di te permettile e permettiti di dire cosa la farebbe sentire meglio oggi, cosa potrebbe aiutarla a non sentire quel disagio.  
  • Riabilita la capacità di amare. In continuazione del punto precedente, nel momento in cui arrivi ad identificare come bisogno profondo quello di amare e di entrare in relazione vera con gli altri, parti da te. Inizia ad entrare in contatto con la parte di te bambina che è stata lasciata sola, che non è stata vista o capita, che non è stata coccolata e prova, oggi, a fare un po’ tu il genitore di cui ha ancora bisogno.
  • Impara a guardarti con approvazione. Cerca il più possibile di trovare nella tua giornata dei momenti in cui puoi darti dei meriti, in cui puoi riconoscerti delle qualità, in cui puoi dirti che sei ok a prescindere dai risultati che raggiungi. E che hai il diritto: non solo il diritto di esserci, ma anche il diritto di essere felice, di realizzarti, di ascoltarti, di vivere le tue emozioni, di emozionarti e ridere con gli altri, di fidarti.
  • Inizia a fidarti degli altri e a ricevere. Uno scoglio molto grande di chi vive questo tipo di ferita è proprio quello di fidarsi degli altri e, in un certo senso, di affidarsi agli altri con la certezza che ci saranno per noi a livello emotivo. Prima di liquidare una relazione o di non legarti proprio, replicando il solito copione, trova una serie di “prove” concrete del fatto che la tua Persona ti vuole bene, che ti reputa molto importante e che ti apprezza. In questo modo potrai pian piano mettere il discussione il tuo modello e andare a modificare nel tempo il tuo schema di attaccamento.

Mi rendo conto che il discorso sia molto complesso e articolato, e ho provato a condensarlo in poche pagine pur rendendomi conto di aver messo sul fuoco forse anche troppa carne.

Ti lascio due testi utili se vuoi approfondire il discorso:

Le 5 ferite e come guarirle”, di Lise Bourbeau.

Reinventa la tua vita”, di J. E. Young e J.S. Klosko.

 

 

 

 

 

 

Un caldo benvenuto a chi è approdato per caso su questa pagina e a chi ci è arrivato di proposito, insieme ad un grosso arrivederci a chi vorrà tornare a trovarmi.