Isolamento sociale e adolescenza
L’adolescenza è, per definizione, un’età di transizione e cambiamento. Cambia il corpo, cambia il modo di vedersi, cambiano i pensieri, cambiano le relazioni.
E, proprio per questo, è un periodo molto delicato e determinante per la strutturazione dell’identità.
E lo è soprattutto perché il ragazzo si trova a vivere una sorta di “condizione di mezzo”: non è più piccolo come un bambino, ma nemmeno grande come un adulto.
Questo determina delle grandi difficoltà di definizione, oltre a portare i ragazzi ad oscillare continuamente tra la ricerca del supporto dei genitori e la messa in discussione totale delle stesse figure genitoriali, tra la tendenza ad isolarsi e quella di buttarsi nella mischia.
Solitudine e adolescenza
Come appena introdotto sopra, siamo davanti al proseguimento di un processo di individuazione che inizia già nell’infanzia, ma che trova nell’adolescenza la sua massima espressione, con tutti i risvolti anche complicati del caso.
E, in questa cornice particolare, far parte del gruppo dei pari rappresenta una condizione fondamentale per strutturare la propria identità, mediata appunto dal rapporto con quegli altri che esistono fuori dalle mura domestiche.
Nella maggior parte dei casi il processo si sviluppa in maniera anche sofferta ma, tutto sommato, lineare e fluida; in altri casi tutto questo non avviene e ci ritroviamo di fronte a situazioni nelle quali, viceversa, il gruppo è una minaccia, un qualcosa da cui scappare perché non ci si sente all’altezza, un motivo di grande ansia e tristezza che porta i ragazzi a rifugiarsi nella solitudine.
Una solitudine che, ovviamente, non è ricercata e scelta in modo consapevole ma è, in qualche modo, subita e vista come unica via di scampo alla messa in discussione personale e al confronto.
Questo è, per esempio, quello che succede in Giappone con il fenomeno degli Hikikomori, e che sta prendendo piede anche in altre parti del mondo come sintomo di un disagio esistenziale sempre più in crescita.
Il termine Hikikomori è stato coniato dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki, che si interessò per primo al fenomeno andandolo a definire nella sua fenomenologia. Hikikomori significa letteralmente “stare in disparte” e definisce quelle Persone, in particolare adolescenti, che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno.
Spesso questi ragazzi vivono nelle realtà virtuali dei videogiochi e sono in contatto con il mondo solo tramite internet: questo è un contatto apparente perché, di base, la tendenza generale è quella del ritiro sociale e dell’evitamento, alimentata anche da un umore depresso e sentimenti di auto-svalutazione.
Gli studi sulla realtà giapponese descrivono dei quadri molto precisi: parliamo di ragazzi iperprotetti dalle madri, che non favoriscono il loro processo di individuazione ed esplorazione andando a colludere più o meno inconsapevolmente con il mantenimento del problema. E abbiamo, poi, padri assenti, dediti solo al lavoro e alla “causa comune”, inglobati in un sistema spersonalizzante che sponsorizza l’omologazione e l’adeguamento a dei precisi canoni collettivi.
Paradossalmente, quindi, il ritiro nella stanza diventa una forma di ribellione attraverso cui esprimere il profondo senso di inadeguatezza e inappartenenza a questo tipo di cultura omologante verso la quale l’adolescente non si sente all’altezza.
Isolandosi l’Hikikomori cerca di costruire la propria identità senza doversi confrontare con la società e rischiare di non sentirsi conforme alle sue richieste: ecco che, come vediamo, diventano centrali vissuti di inadeguatezza, vergogna e senso di esclusione.
La trappola dell’esclusione sociale
Dietro il fenomeno della fobia sociale e, di conseguenza, del ritiro in adolescenza si nasconde una trappola psicologica ben precisa, quella dell’esclusione sociale.
E’ un tipo di trappola psicologica che cammina a braccetto con quella dell’inadeguatezza, della quale abbiamo già parlato in post precedenti e che ti invito a ricercare se vuoi approfondire.
Ma che significa esclusione sociale?
Per esclusione sociale ci riferiamo a tutte quelle situazioni, molto diffuse in Italia, nelle quali gli adolescenti evitano momenti di interazione con il gruppo dei pari, tendendo ad evitare momenti di svago, di ritrovo o di interazione che presuppongono un contatto diretto ed esplicito con uno o più coetanei.
Per farti capire meglio, un ragazzo che ha questa trappola si sentirà estremamente a disagio nelle feste e tenderà a non andarci, farà molta fatica ad interagire con i compagni di scuola, tenderà a restare a casa da scuola, si sentirà al sicuro solo dentro le mura della sua stanza dove non può sentirsi né giudicato né pressato in alcun modo.
Devi vedere l’esclusione come una sorta di “evitamento verso l’esterno”, dove il ragazzo scappa in maniera più o meno manifesta da tutte quelle situazioni che presuppongono un confronto con i pari e, potenzialmente, un giudizio.
E, mentre l’esclusione sociale è molto legata al mondo esterno dal quale io adolescente decido di tirarmi fuori, la base emotiva che la alimenta è proprio un vissuto interno di inadeguatezza e manchevolezza.
Gli altri sono sempre meglio sotto ogni punto di vista: più belli, più intelligenti, più capaci, più popolari, più tutto. E, come puoi ben immaginare, questo porta i ragazzi a sentirsi diversi, non degni, non all’altezza, soli: l’unica via d’uscita di fronte a questo disagio è, perciò, quella dell’isolamento e dell’evitamento di tutte quelle situazioni che espongono al rischio di fallire, essere giudicati o valutati in qualche modo.
Come vedi, perciò, la trappola dell’inadeguatezza e quella dell’esclusione sociale camminano di pari passo, l’una rafforza l’altra in un circolo vizioso che si autoalimenta e che, con diversi livelli di gravità, ha delle importanti ripercussioni sullo strutturarsi dell’identità dei nostri ragazzi.
Ma cosa si può fare per tutto questo?
Gestire l’isolamento
Lungi dal presentarsi come uno sterile elenco di “ricette magiche” per aiutare i nostri figli a gestire la trappola dell’esclusione sociale, ho deciso di elencarti qui alcuni punti importanti che potrebbero esserti utili nell’approcciarti a questa delicata fase di vita che tuo figlio adolescente potrebbe attraversare.
Stai con i suoi vissuti.
Quando e se tuo figlio decide di aprirsi con te raccontandoti i suoi vissuti di esclusione e inadeguatezza evita di “consolarlo” dicendogli che si sbaglia, che in realtà ha tante qualità e via dicendo. In questo modo non farai altro che generare chiusura perché non si sentirà capito o, peggio ancora, si sentirà sminuito nei suoi vissuti. Prova, invece, a mostrarti il più empatica/o possibile con i vissuti che ti porta, senza per forza volerlo convincere del fatto che ciò che sente è sbagliato.
Aiutalo a focalizzarsi su ciò che funziona realmente.
Un aspetto molto importante che spesso si nasconde dietro la trappola dell’inadeguatezza e dell’esclusione è proprio il fatto che i ragazzi tendono a focalizzarsi soltanto su ciò che di loro non funziona o non è adeguato: questo li porta ad abbattersi e chiudersi ancora di più. Dopo che hai mostrato empatia e gli hai riconosciuto il suo disagio, diventa importante aiutarlo a concentrarsi in maniera obiettiva su qualcosa, anche di piccolo, che oggi funziona già nella sua vita. Questo lo aiuterà a sviluppare un’altra prospettiva sulle cose, che non nega i vissuti di inadeguatezza ma aggiunge anche dei vissuti più positivi di efficacia e riuscita.
Non forzare e insegna la gradualità.
Altro aspetto che può essere utile è quello di non forzare tuo figlio a buttarsi per forza nella mischia se non se la sente. Tendiamo, invece, a pensare che supportare i nostri figli significhi anche spingerli a superare in maniera brusca e netta le loro paure affrontandole di petto: questo a volte funziona, ma tante altre può essere percepito quasi come una violenza. Tradotto in altri termini, se tuo figlio non se la sente di uscire subito con una compagnia di 20 persone, potresti invitarlo magari ad uscire con una o due persone che reputa meno “minacciose”. Il senso della gradualità è, perciò, molto importante perché lo aiuta ad avvicinare piano piano ciò che teme, sperimentandosi a piccole dosi.
Aiutala/o a migliorarsi.
Se ci sono realmente delle parti del suo corpo che non accetta, o degli aspetti caratteriali bloccanti piuttosto che minimizzare o non riconoscerli come fonte di disagio potrebbe essere più utile aiutare tuo figlio a migliorarsi. L’approccio deve essere un po’ quello del “cosa possiamo fare per rendere più accettabile ai tuoi occhi questo aspetto di te che proprio non digerisci?”. Per farti capire, a volte questo può passare banalmente da un cambio di look, da un diverso taglio di capelli, o da un cambio nel modo di truccarsi e via dicendo: già dei piccoli cambiamenti fisici potrebbero essere determinanti per aiutare i nostri ragazzi ad accettarsi di più.
Mi rendo conto che questi spunti siano molto riduttivi per affrontare un disagio esistenziale che, al di là del normale processo adolescenziale, potrebbe diventare davvero molto ingombrante: nel caso in cui il disagio fosse talmente forte da determinare un blocco totale nella vita di tuo figlio ti consiglio di rivolgerti ad un terapeuta, mentre se senti che è solo una fase passeggera prova a vedere se qualcuna di queste riflessioni può esserti utile nella gestione della crisi.
Spero che queste riflessioni su questa trappola molto diffusa al giorno d’oggi ti siano servite e, come sempre, ecco qualche spunto utile per approfondire:
- “Hikikomori e adolescenza”, di Francesca Corrado.
- “Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione”, di Carla Ricci.
- “Reinventa la tua vita”, di Jeffrey Young e Janet Klosko.
Un caldo benvenuto a chi è approdato per caso su questa pagina e a chi ci è arrivato di proposito, insieme ad un grosso arrivederci a chi vorrà tornare a trovarmi.