Uno sguardo sui libri che aiutano a "liberare" il tuo potenziale
Nonostante tutto, il Natale è alle porte: quale migliore occasione per leggere o regalare un libro?
Te ne racconto tre che mi hanno lasciato qualcosa di importante in diverso modo, e che ti ripropongo qui con la speranza di regalare qualcosa di buono anche a te.
“La morte di Ivan Il’ic” di Lev Tolstoj.
Classico della letteratura russa, questo racconto risale alla fine dell’800 e, nonostante ciò, rimane assolutamente attuale anche per noi.
Non mi fermo tanto sulla trama che sicuramente conosci già, ma voglio solo dirti che reputo questo testo una sorta di “viaggio interiore” attraverso la lettura. Tratta un tema molto complesso come quello della morte e del senso della vita, e lo fa anche in maniera direi cruda e senza fronzoli.
Proprio perché, quando si parla di morte, non ci possono essere mezze misure. Forse perché, andando a scandagliare così nel profondo una dimensione intima e sfaccettata del nostro essere su questa terra, non si può mentire o “indorare la pillola”.
Se ci pensi, questo racconto è un viaggio nell’interiorità del protagonista, e della nostra, perché inizia proprio dalla fine: nessun colpo di scena, nessun finale inatteso. Anzi, quasi a prenderci in giro, Tolstoj ci dice subito che la storia finisce quando Ivan muore. Ma, ed è qui il miracolo, paradossalmente la storia inizia proprio da questa fine.
Una storia non costruita su accadimenti esterni o su grandi sconvolgimenti: una storia che ci permette di fiutare da lontano lo sconforto e il dolore di un uomo che sa che a breve morirà, e che si ritrova a mettere in discussione tutta la sua esistenza.
L’esistenza di una famiglia russa medio borghese, che potrebbe essere anche la nostra. Un’esistenza apparentemente “dorata” e senza scandali ma, forse, poco autentica e poco sentita nel suo svolgersi quasi prestabilito e “normale”.
Ed è proprio la morte che arriva a sconvolgere i piani e a mettere in discussione, che rende unico un qualcosa che fino ad un istante prima era scontato e anonimo: rende unico un significato, che rimane diverso e uguale in ognuno di noi. Un significato che siamo chiamati a trovare e realizzare prima che sia troppo tardi. Anche se, come lo stesso libro ci suggerisce, forse non è mai troppo tardi per trovare un senso.
3 cose che mi porto dalla lettura di questo libro:
1. Non aspettare domani.
La grande verità che questo libro mi comunica è proprio l’importanza del vivere per un senso. Ivan, il protagonista, si rende conto sul letto di morte che la sua vita è stata costruita sulla menzogna, la convenienza, le false relazioni e, in prima battuta, questa consapevolezza lo porta quasi a “ribellarsi alla morte”, a resistere al lasciarsi andare definitivo per cercare di cambiare il suo destino.
Quante volte rimandiamo a domani qualcosa di importante perché non abbiamo tempo? Quante volte rinunciamo ad abbracciare qualcuno che amiamo perché siamo troppo stanchi? Quante scegliamo di viverci meno i nostri figli per lavorare di più e guadagnare di più?
Domande provocatorie che faccio a me e rifaccio a te proprio perché sento che il forte messaggio che Tolstoj ci manda con il suo racconto è proprio quello che possiamo morire bene se viviamo bene: paradossalmente è come viviamo che andrà a definire come moriremo.
Se viviamo la nostra vita in funzione di un significato, qualunque esso sia, allora potremmo sentirci più in pace quando arriverà per noi il momento di lasciare il mondo. Se, viceversa, sentiamo di non aver realizzato il nostro senso moriamo dilaniati, moriamo “incompiuti”.
Infatti, solo quando Ivan trova in suo senso riesce ad abbandonarsi alla morte. Solo quando fa pace con se stesso e con chi lo circonda, può davvero lasciarsi andare.
2. L’importanza del per-dono.
In continuazione col il punto precedente, un altro aspetto su cui voglio far focalizzare la tua attenzione è proprio l’importanza del perdono e della compassione. Proprio nell’ultima ora della sua vita, Ivan Il’ic realizza il suo senso, e lo fa perché inizia a provare compassione per se stesso e per i suoi familiari e amici. Non a caso, in tutto il periodo della sua agonia sente sollievo solo accanto ad una figura apparentemente insignificante, quella del servo che gli sta vicino gratuitamente e con benevolenza.
Ed è, forse, proprio la pietà (in senso buono) che sente rivolta a lui ciò che gli dà conforto e sollievo in una fase molto difficile del suo commiato con il mondo: un conforto che sarà totale e che lo porterà, poi, ad abbandonarsi alla morte, proprio quando lo farà suo e quando sarà in grado di trasmetterlo anche agli altri. La sua vita, dalle conclusioni che trae, non è stata quella che avrebbe voluto: e fa il “salto” definitivo, proprio quando si perdona per questo e quando perdona gli altri.
Ed ecco, in collegamento con questo discorso, aggiungo anche quanto leggere questo racconto così vivido e onesto nel dipingere i vari personaggi, mi abbia fatto riflettere sull’importanza di costruire relazioni nutrienti e, soprattutto, vere. Relazioni che non hanno bisogno di falsità o convenzioni sociali per andare avanti, ma che esistono per il genuino interesse e affetto reciproco. Relazioni che, in ultima battuta, sono poi quelle che salvano e, magari, aiutano a morire in pace.
3. Pensa alla morte per vivere davvero.
Il tema della morte non è di così facile portata. Se ci pensi, non esiste relazione o contesto dove in realtà sia facile ed immediato parlarne: abbiamo creato una sorta di tabù sul tema della morte, ed è molto complicato anche confrontarsi su un momento che, forse, è il più importante della vita. Ecco che, allora, il libro ci permette di dire l’indicibile, di dare un nome ad un qualcosa che fa paura, che mette in crisi, che si tende spesso ad evitare di pensare.
Ma, forse, se non inizi a dare il giusto nome alle cose non potrai, poi, collocarle in un orizzonte di significato più ampio, che ti aiuti non solo a pensare al tuo futuro ma, soprattutto, che ti possa permettere di vivere davvero il tuo presente.
Ne abbiamo già parlato in qualche post e in sintesi ciò che voglio dirti suona un po’ così: inizia a realizzare, pensare e dire che morirai, perché questa consapevolezza sarà l’unica che ti potrà aiutare a vivere.
CITAZIONE PREFERITA
“In quello stesso momento Ivan Il’ic era sprofondato, aveva visto la luce e aveva scoperto che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, ma che a questo si poteva ancora rimediare. Si era chiesto cosa si poteva fare di giusto e si era calmato mettendosi in ascolto. Allora aveva sentito qualcuno che gli baciava la mano. Aveva aperto gli occhi e aveva visto il figlio. Aveva avuto pietà di lui. La moglie gli si era avvicinata. L’aveva guardata. Lei, con la bocca aperta, le lacrime che scorrevano sul naso e sulle guance, senza che le asciugasse, lo guardava con aria disperata. Aveva avuto pietà di lei”.
“La forza della fragilità” di Brenè Brown
Brenè Brown è una nota ricercatrice in scienze sociali e in questo saggio tratta il tema della fragilità umana. Ciò che colpisce subito e che, magari, non ci si aspetta è il fatto che, pur essendo un saggio, si avvicina più ad un racconto.
Il tema è trattato, secondo me, con una modalità che definirei quasi “intima”: non ci sono grandi e lunghi rimandi a disegni di ricerca complessi, pur partendo da tutta una serie di ricerche che l’autrice ha fatto sul campo nel corso degli anni.
Questo libro, infatti, racconta proprio la vita. E lo fa in maniera anche molto semplice e “naturale” proprio dalla viva voce della Brown, che non esita a mettersi a nudo raccontando molto di sé e dei suoi vissuti.
E’ un libro che ti può venire in aiuto se stai passando un momento di fragilità più o meno grande, se ti senti di fallire in qualche ambito della tua vita, se hai perso la passione e il senso delle tue giornate. Questo perché è un testo che ci fa riflettere proprio sulla possibilità di iniziare a leggere le nostre fragilità come opportunità di crescita e di accettazione di noi stessi, come un modo per imparare qualcosa dalla vita anche e soprattutto quando ci fa inciampare.
3 cose che mi porto da questo libro:
1. Il problema non è il problema.
Quando cadiamo o ci sentiamo sconfitti, tendiamo spesso e volentieri ad identificare la causa del nostro stato con ciò che ci è successo: certo, è ovvio che il nostro sentire sia influenzato da quello che ci accade, ma la trappola in tutto questo risiede nel definire come stiamo in base all’entità del nostro problema.
Detto in altri termini, leggere questo libro mi ha fatto riflettere sul fatto che non è fondamentale ciò che ci accade nella vita, ma cosa ne facciamo. Ciò che fa la differenza è come scegli di reagire alle tue tragedie giornaliere, come le integri o non le integri nel tuo sistema di significati, quanto coraggio hai di cadere.
Sembra assurdo, lo capisco: tanto più ti prendi il rischio di cadere e accettare che sei caduta/o, tanto più vivrai intensamente. E, aspetto ancora più importante, tanto più sarai così coraggiosa/o da raccontartelo, tanto più potrai dare un senso a ciò che ti è successo.
Ecco che, infine, un punto importante del discorso che fa l’autrice è anche quello della possibilità di raccontarsi: quanto riesci a guardare in faccia la tua realtà di fragilità e a raccontarla in primis a te e poi, volendo, anche agli altri? Se impari a narrare, impari non solo a riconoscere senza evitare, ma anche ad incontrare davvero l’altro.
2. La fragilità come terreno di incontro.
Continuando dal punto precedente, possiamo dire che la maggior parte delle volte se cadiamo tendiamo a nasconderlo a noi stessi, ma soprattutto agli altri. Vogliamo sempre dare di noi un’immagine vincente, perfetta, completa, forte: ma quanto può durare? E, soprattutto, quanta fatica ti richiede fare così?
Ammettere di avere delle fragilità e riuscire a mostrarci per come siamo, anche con i nostri limiti e difficoltà, ci pone in una condizione di “nudità”: siamo scoperti, è vero. La nostra armatura non c’è più e, quindi, siamo in potenza più esposti agli attacchi altrui. So che questo non è per niente facile e che, anzi, per molti non è nemmeno pensabile: ma, se per un attimo provi ad andare oltre, senti che hai incontrato davvero qualcuno quando hai finto di essere come non sei e ti sei “pompata/o” per apparire migliore, o quando sei venuta/o fuori al naturale con pregi e difetti?
Questo vuol dire anche imparare a chiedere, manifestare i nostri bisogni, avere il coraggio di esporsi senza la garanzia di un risultato: non è facile, ma sappi che, spesso, ti fai conoscere e puoi conoscere l’altro solo a partire dalle tue e sue difficoltà, dai punti d’ombra, dalle ferite, dalle vulnerabilità.
3. Riconosci la tua fragilità.
Sempre in continuazione dei punti appena trattati, un aspetto fondamentale per rendere le nostre vulnerabilità delle risorse è, banalmente, quello di vederle: come già detto sopra, siamo portati ad evitare di sentire il fallimento, la difficoltà o la fragilità che abbiamo dentro.
Questo perché farlo ci rende, forse, più vulnerabili ai nostri occhi e a quelli degli altri: ma, in realtà, solo se impari a guardare come stai davvero puoi accettarti in toto e lavorare per migliorare il tuo stato, se proprio non lo tolleri.
La Brown insiste tanto sul tema del contatto con se stessi e della riflessione su cosa ci succede e su come rispondiamo: questo perché la forza può arrivare solo dalla padronanza di un qualcosa, non dall’evitamento. Il coraggio si trova se decidi di abbracciarti davvero in tutto il tuo sentire, e se decidi di accoglierti e volerti bene anche se, come è naturale, cadi. Solo a queste condizioni potrai rialzarti davvero.
CITAZIONE PREFERITA
“Rimettendoci in piedi dopo una caduta, impariamo a vivere con tutto il nostro essere, autenticamente e incondizionatamente, e percorriamo la strada che ci aiuta di più a capire chi siamo”.
“Ottimismo in pratica” di Toni Pizzecco.
E’ un libricino che si legge davvero in una mezz’ora e lo definirei fresco. Per la grafica, i disegni, i colori, lo stile dei caratteri sembra quasi un libro per bambini ma, in realtà, questa sorta di “freschezza” è solo apparente perché tratta, invece, un tema fondamentale legato alla psicologia positiva.
L’autore, Toni Pizzecco, è un medico che vive in Alto Adige e ha partecipato a numerose missioni umanitarie: e, proprio da medico, ci dà una visione molto interessante su come i nostri pensieri negativi vanno ad influire non solo sulle nostre emozioni e sul modo di leggere la nostra vita, ma anche sul nostro corpo.
Nonostante non sia uno psicologo dà delle spiegazioni molto semplici sulla natura del pensiero, su come si forma nel nostro cervello, sulla connessione con le emozioni e il corpo. E fa tutto questo in maniera davvero simpatica, usando delle vignette molto semplici, con esempi che potrebbero sicuramente riguardare ognuno di noi.
Il nucleo del tema da lui trattato è un po’ questo: se impari a bilanciare i pensieri negativi che la tua mente produce con altri più positivi e funzionali per te, vivi meglio. E, infine, nella parte conclusiva del libro l’autore offre anche degli spunti un po’ più pratici per farlo: parla di meditazione, sport, tecniche immaginative, fede, cioè di tutti quegli aspetti del vivere che possono darci linfa invece di rinchiuderci in un baratro di ansia, depressione, o dolore fisico.
Consigliato a chi vede sempre il bicchiere mezzo vuoto e vuole mettersi in gioco in maniera semplice e divertente lavorando su questo aspetto.
3 cose che mi porto da questo libro:
1. L’ottimismo va ricercato.
Spesso ci convinciamo del fatto che essere felici o tristi arrivi dal caso: abbiamo una visione “impotente” della cosa, come se non fosse nostra responsabilità sentire e pensare una cosa piuttosto che un’altra. Leggere questo libro ha riconfermato dentro di me che anche l’ottimismo va voluto e ricercato attivamente, e che tutti abbiamo un qualche potere personale in merito.
Questo non significa che dobbiamo per forza sforzarci di essere felici anche quando non lo siamo per niente: intendo dire che abbiamo il potere di “bilanciare” dentro noi stessi i pensieri negativi con quelli positivi.
Immagina di percorrere sempre uno stesso sentiero che, a furia di essere sempre battuto, diventa una strada ben definita: se provi, nello stesso tempo, a percorrere ogni tanto anche un sentiero diverso sarà, certo, meno comodo e immediato ma, col tempo, diventerà un sentiero familiare quanto il primo.
Questo per dire che, se siamo abituati d approcciarci alla vita vedendo sempre il bicchiere mezzo vuoto, all’inizio non sarà né facile né agevole provare a trovare una strada alternativa. Ma, esercitando il nostro potere personale sulla vita, pian piano riusciremo a bilanciare i pensieri disfunzionali con altri più utili per noi.
2. Le ferite dell’anima diventano anche ferite del corpo.
Un altro ri-apprendimento che mi porto dietro dalla lettura di questo libro è l’importanza del profondo collegamento esistente tra mente e corpo. Sembra banale, ma l’autore ci fa riflettere, da medico, su quante volte accusiamo dei fastidi fisici che non hanno per nulla un’origine organica: parliamo di tutta la sfera delle malattie psicosomatiche, che la fanno da padrone negli studi dei medici di base.
Questo perché, spesso, è più “facile” investire il corpo per manifestare un disagio dell’anima, invece che guardarlo in faccia davvero iniziando a prendersene cura. Il corpo è profondamente legato alla psiche e, come dice l’autore, forse dovremmo pensare al fatto che si può avere un corpo sano solo avendo una “mente sana”.
3. La realtà non è la realtà.
L’ultimo punto che voglio lasciarti per riflettere ha a che vedere proprio con la natura dei nostri pensieri: quasi sempre tendiamo a vedere i nostri pensieri come dei fatti concreti, come delle verità reali. In realtà, i pensieri non sono realtà, sono solo il frutto della nostra mente e, per quanto importanti, non posso definire pienamente ciò che poi andremo a vivere nel concreto.
Per farti un esempio: se io penso di essere brutta e ne sono convinta leggerò tutta la mia realtà sulla base di questa convinzione, magari iniziando a non uscire alla sera perché credo di non poter apparire interessante, o leggendo impropriamente negli altri delle espressioni di disgusto quando non ci sono.
Questo per dire che ognuno di noi costruisce la sua realtà in maniera, per forza di cose, non oggettiva e, quindi, la realtà è fenomenologica, cioè dipende molto da chi la guarda. Detto questo, i nostri pensieri hanno il potere enorme di influenzare il modo in cui guardiamo la nostra realtà e, perciò, se inizi a renderti conto di questo puoi provare a lavorare su di essi per rendere la tua realtà un pochino più “bella” a vedersi.
CITAZIONE PREFERITA
“La visualizzazione di immagini positive e armoniose sul nostro schermo della mente calma il ritmo della respirazione, rallenta il battito cardiaco e abbassa la pressione del sangue. Questo significa che il nostro corpo reagisce a impulsi provenienti dal cervello, senza distinguere se si tratta di realtà oppure di immaginazione”.
E voi, che libri regalerete o leggerete in questo Natale?
Un caldo benvenuto a chi è approdato per caso su questa pagina e a chi ci è arrivato di proposito, insieme ad un grosso arrivederci a chi vorrà tornare a trovarmi.